
HANDEL
Tamerlano
Tamerlano: M. Bacelli
Andronico: S. Mingardo
Asteria: E. Norberg-Schulz
Bajazet: B. Ford
Irene: L. Polverelli
Leone: U. Chiummo
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore: I. Bolton
Regia: G. Vick
Firenze, Teatro della Pergola
Un Tamerlano senza autorità
Grande concorso di cultori handeliani da tutta
Europa al teatro della Pergola di Firenze per Tamerlano,
secondo titolo della stagione del Maggio Musicale Fiorentino,
che veniva proposta per la prima volta nella città toscana,
e conosciuta ai più solamente attraverso le ben poco riuscite
incisioni discografiche di John Eliot Gardiner e Jean-Claude
Malgoire. Grande curiosità, quindi, intorno a questo melodramma
tra i più omogenei del musicista di Halle: una perfetta architettura
imperlata di stupende arie solistiche interrotte solamente da
due duetti; quale centro drammatico dell'opera si distingue
una gemma costituita dalla scena della morte di Bajazet, risolta
inaspettatamente con un declamato prefigurante una essenzialità
neoclassica, le cui fortune erano a quel tempo pochissimo ipotizzabili.
Al di là del rigido impianto formale, l'orchestrazione adotta
colori attenuati, mancando del tutto, per fare un esempio, la
sezione degli ottoni, quella sezione che contribuisce a marcare
l'eroismo di Giulio Cesare e di Rinaldo negli omonimi capolavori
handeliani. Essendo dunque Tamerlano opera che gioca
le proprie carte nelle sfumature e nelle nuances, è più cha
altrove necessario da parte del direttore d'orchestra adottare
una concertazione attenta più ai colori che alla perfezione
formale: Ivor Bolton, alla guida di una formazione di strumenti
moderni, non coglieva purtroppo nel segno. Innanzitutto la scelta
di non avvalersi di una compagine filologica era ampiamente
discutibile: queste formazioni hanno ormai raggiunto un livello
medio così elevato, che le antiche obiezioni sull'opportunità
del loro utilizzo sono del tutto fuori luogo; eppoi c'è da rilevare
che a questo punto anche il pubblico è assuefatto alle sonorità
degli strumenti antichi, e quanto poco c'entri il suono dell'oboe
moderno con le note scritte da Handel per il corrispondente
strumento barocco, è cosa evidente a tutti (meno che a Bolton).
Non solo: da notare la presenza di due flauti a becco, che,
però, giudicati forse troppo poco amalgamabili col timbro degli
strumenti moderni (e allora perché non eliminarli del tutto?),
venivano affiancati da due flauti traversi all'unisono! Ma quello
cha mancava alla concertazione di Bolton era proprio la ricerca
di sfumature, la diversificazione dei caratteri delle diverse
arie; come si era già potuto rilevare nella Poppea dello scorso
anno, tutto appariva levigatissimo, preciso, ma ben poco vivo:
basta ascoltarsi una qualsiasi registrazione handeliana dei
cosiddetti specialisti ( René Jacobs, Marc Minkowski solo per
fare due nomi fra i tanti), per rendersi conto di quale sia
la differenza fra una concertazione ispirata e competente e
una corretta lettura. Sul palcoscenico agiva una compagnia formata
in gran parte da finissimi interpreti di nazionalità italiana,
con tutto quello che di buono ne consegue in fatto di chiarezza
di dizione e appropriatezza di fraseggio. Il problema, non imputabile
a questo o a quell'interprete, consisteva però nel fatto che
l'apatia che giungeva dalla fossa orchestrale finiva inevitabilmente
per contagiare i cantanti, i quali, al di là di alcuni isolati
spunti personali, non riuscivano ad oltrepassare una correttissima
lettura dei personaggi. Certo Sara Mingardo, eccelsa esecutrice
del repertorio sacro barocco, donava timbro carezzevole e pregnanza
stilistica al personaggio di Andronico, senza però possedere
un adeguato spessore vocale, pecca riscontrabile (ma non è una
novità) anche nella Asteria di Elizabeth Norberg-Schulz, afflitta
peraltro da una indifferenza scenica quasi irritante. Al contrario
Monica Bacelli, già isterica Ottavia nella ronconiana Poppea
dello scorso anno, si dimostrava un Tamerlano stupefacente nel
mettere in luce il carattere giovanile e corrotto del personaggio,
cui purtroppo non faceva riscontro un'autorità vocale sufficiente
per rendere appieno la folle bizzosità del condottiero tartaro.
Bruce Ford plasmava invece un notevole Bajazet, donando al sultano
infelice nobiltà di accento e timbro pastoso, e superando senza
difficoltà anche gli scogli costituiti delle arie di furore
e dagli impegnativi momenti di declamato. Una menzione speciale
per l'Irene di Laura Polverelli, (la cui voce era, peraltro,
l'unica a correre senza problemi nella non vasta sala della
Pergola), inspiegabilmente relegata in una parte di fianco:
non sarebbe forse stata un Tamerlano più autorevole, della pur
brava Bacelli? Completava il cast il corretto Leone di Umberto
Chiummo. L'allestimento di Graham Vick, infine, molto elegante,
ma povero di elementi scenici (un globo sovrastato da un enorme
piede simboleggiante la tirannia di Tamerlano, un bizzarro elefante
sul cui dorso giungeva Irene trasformata in principessa indiana
con tanto di sari), rinunciava alla consueta accozzaglia di
scene e controscene tipica del regista inglese, il quale si
concentrava maggiormente sui gesti dei singoli interpreti, ottenendo
risultati convincenti solo con l'aiuto del carattere dei singoli
(vedi lo scatenato Tamerlano della Bacelli). Completavano la
scena sei inutili mimi addobbati da funerei abiti neri, che
costruivano di volta in volta inutili siparietti. Al termine
delle quasi 4 ore di musica il pubblico rimasto in teatro (lo
spettacolo si è concluso alla mezzanotte e quaranta!) ha accolto
calorosamente tutti gli artisti. |